Un dipinto sotto la lente: “Estasi di Santa Cecilia” di Raffaello Sanzio

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Denominato da alcuni “il dipinto del silenzio”, quest’opera realizzata intorno il 1514 da Raffaello Sanzio è imperniata sulla presenza di Santa Cecilia attorniata da quattro figure disposte in semicerchio rievocanti la cantoria celeste che a mo’ di cartiglio è inclusa nella parte superiore del dipinto.

Per via degli sguardi e dei gesti che esaltano il misticismo dei personaggi – tutti ben riconoscibili per i loro attributi iconografici – e per l’atmosfera calma e serena della intera scena, si può considerare quest’opera come una sorta di sacra conversazione sebbene non sia presente la Madonna con il bambino, elemento questo che dovrebbe caratterizzare per l’appunto una “Sacra Conversazione”.

Raffaello-Santa-CeciliaL’elemento predominante è senz’altro la figura di Santa Cecilia, il cui sguardo assente e rivolto verso l’alto induce a supporre che sia l’unica a udire le melodie celestiali che gli angeli intonano mentre gli altri partecipanti a questa conversazione – San Paolo con il suo camice verde e il manto rosso che regge con il palmo della mano sinistra la spada, San Giovanni evangelista riconoscibile dal libro ai suoi piedi su cui si trova l’aquila, Sant’Agostino vestito dal piviale ricamato e reggente il bastone pastorale e Maria Maddalena che tiene in mano l’ampolla degli unguenti, l’unica figura il cui sguardo sia rivolto verso lo spettatore – appaiono esclusi da questa estasi.

Secondo la tradizione anche questi personaggi sono tutti legati al tema delle apparizioni o dell’ascesa celeste, infatti alla fine della loro vita terrena Giovanni e Maddalena ascesero al cielo, mentre Paolo ebbe una visione di Dio sulla via di Damasco così come ad Agostino apparve il Bambin Gesù su un litorale: probabilmente è per questi motivi che Raffaello li ha scelti come contorno all’estasi di Santa Cecilia.

Da notare l’assenza, in un momento di così grande importanza, di alcun simbolo tradizionale della divinità – croce o colomba ad esempio – neppure all’interno del coro angelico: una dimostrazione della capacità innovatrice e dirompente di Raffaello come ben evidenziato da Anna Maria Brizio: «La divinità non appare agli occhi, essa è nel cuore della santa Cecilia, così come la musica non risuona materialmente al suo orecchio, ma solo nella sua anima».

Altro elemento che caratterizza visivamente l’opera è la riproduzione degli strumenti musicali – ricordiamo che Santa Cecilia è la protettrice della musica – che, rotti e disposti disordinatamente a terra, dovrebbero rappresentare la caducità del profano rispetto alla eternità del sacro, principio ancor più messo in evidenza dal lento ma inesorabile sfilarsi di due canne dell’organo portatile che la Santa tiene in mano capovolto, quasi a significare la sua intenzione di liberarsi di ogni legame terreno.

Pregevole la fedeltà realistica della viola da gamba senza corde e con la cassa incrinata, del triangolo e di altri strumenti tipici al culto di Bacco – flauto, sonagli e tamburelli – che potrebbero essere da soli estrapolati come una “Natura Morta” di eccellente qualità. Tuttavia l’intento di Raffaello, a parte il supposto piacere che poteva provare nell’eseguire con perfezione la riproduzione di questi strumenti e l’intento tecnico di creare tre piani visivi nel dipinto – strumenti musicali, figure umane, cantoria celeste – potrebbe esserci l’idea di rappresentare l’opposizione tra la musica vocale del coro angelico e la musica strumentale, la prima reputata dai Padri della Chiesa superiore alla seconda.

Non trascurabile, anche se naturalmente meno in evidenza di proprosito, è lo sfondo che si scorge alle spalle dei personaggi: un paesaggio collinare dove si può intravvedere, all’altezza del pastorale di sant’Agostino e della spalla sinistra di Santa Cecilia, il profilo di una chiesa che potrebbe essere quella del Santuario di Santa Maria del Monte a Bologna. Un paesaggio che ricorda quelli delle opere di Leonardo da Vinci, che senz’altro Raffaello conobbe e studiò, e che affonda le radici nella ritrattistica umanistica del Quattrocento ma oramai reso nei pittori del rinascimento con una precisione che si potrebbe definire scientifica per i particolari geologici e naturalistici incorporati.

Più in evidenza, quasi uno squarcio nel dipinto (Lucio Fontana con i suoi tagli a questo punto si ridimensiona notevolmente se pensiamo che teorizzo “solo” la terza dimensione sulla tela, mentre qui Raffaello – e tanti altri artisti rinascimentali – andarono oltre rappresentando la dimensione ultraterrena) appare la cantoria celeste formata da sei Angeli intenti a leggere degli spartiti.

Il numero degli Angeli non è casuale, Raffaello come altri artisti dell’epoca era una persona colta, e le opere di Madonne o Santi attorniati sempre da sei Angeli sono molteplici perché dovevano rappresentare verità o interpretazioni teologiche ben codificate. Il numero sei riferito agli Angeli lo si ritrova anche nel campo della cabalistica e dell’astrologia e ricordiamo che i Serafini, gli Angeli che nella Gerarchia Celeste sono al primo posto, venivano dipinti nell’immaginario medievale con sei ali come raccontato da Isaia: “Dei Serafini stavano davanti a Lui, avendo ognuno sei ali, due per coprirsi il volto, due per coprirsi i piedi, due per volare”.

Da parte dello spettatore, nonostante il punto focale sia lo sguardo di Santa Cecilia, l’occhio non fa altro che scorrere ripetutamente dagli strumenti musicali al coro angelico, come sospinti da una forza misteriosa in questa ascesa che ci rende partecipi anche noi all’evento: purtroppo non riusciamo ad udire i suoni celestiali degli Angeli, ma al nostro interno qualche corda potrebbe essere stata toccata ugualmente e la sua vibrazione ripercuotersi intensamente in noi.

Marco Mattiuzzi

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